L’ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina di Roma è stato insignito del titolo “Casa di Vita”, per il suo impegno a favore degli ebrei perseguitati durante l’occupazione nazista. Un premio assegnato dalla Fondazione internazionale Raoul Wallenberg e patrocinato dalla comunità ebraica di Roma e dalla Fondazione Museo della Shoah. Oggi a Roma l’inaugurazione della targa commemorativa. C’era per noi Michele Raviart:
L’avevano chiamata “morbo di K”, dal nome dell’ufficiale tedesco Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma, e del generale Kesselring. Una finta malattia infettiva estremamente pericolosa, inventata dal medico del Fatebenefratelli Giovanni Borromeo, per proteggere dai rastrellamenti delle SS le decine di ebrei ricoverati come falsi malati all’interno dell’ospedale. Tra di loro Gabriele Sonnino, che nel 1943 aveva 4 anni:
“C’erano tanti, tanti ebrei nascosti qui. Mio padre venne a sapere che qui aiutavano gli ebrei e noi ci rimanemmo circa un mesetto. Le SS non credevano che ci fosse tutta questa gente ricoverata. Poi dobbiamo parlare del Fatebenefratelli; per noi ebrei della comunità romana sono stati sempre eccezionali: nel periodo nazista, ma anche quando hanno fatto l’attentato alla Sinagoga. E quanti hanno aiutato i feriti”.
Tra i protagonisti più attivi nella resistenza all’occupazione, l’allora priore del Fatebenefratelli, il frate polacco Maurizio Bialek. Antifascista della prima ora, non solo fornì documenti falsi alle famiglie rifugiate e un riparo sicuro in vari monasteri, ma ospitò sotto l’ospedale anche partigiani e rifugiati politici. Fra Giampietro Luzzato, vicepresidente dell’ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina:
“Questo riconoscimento è molto importante, perché dal ’43 al ’44 quest’ospedale si è prestato sia ad accogliere i rifugiati ebrei – più di 40 sono stati accolti nella sala Assunta, che allora era di degenza – e sempre sotto la sala Assunta c’erano invece i partigiani e i rifugiati politici. Qui poi c’era anche il comando della Resistenza; la radio. Per ben due volte i tedeschi fecero irruzione e cercarono, ma non riuscirono. Alla fine, poi, nel ’44 forse se ne accorsero anche, ma ormai era troppo tardi. Loro stavano partendo”
La targa “Casa di Vita” è un riconoscimento che sancisce il rapporto tra gli ebrei romani e l’ospedale, spiega Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica:
“Per noi è particolarmente importante ogni occasione in cui possiamo testimoniare persone o momenti in cui si è anteposto il bisogno della vita alla sofferenza e alla voglia di sacrificare invece l’altro. Questo è un esempio particolarmente sentito per noi, non solo per vicinanza del quartiere ebraico a quest’ospedale, ma proprio perché la sensibilità dei medici, che qui hanno operato, ha dimostrato che si potevano sicuramente salvare tante vite semplicemente mettendo questo bisogno di vita, di futuro e di libertà, al di sopra di ogni altro valore. La genialità di inventare un ‘morbo di K’ per salvare delle persone che fuggivano, loro malgrado, solo per essere ebrei, dalla deportazione o dal sacrificio addirittura della loro vita, è la testimonianza che certi valori, se sono ben radicati, devono prevalere”.