di MARCO CACCIATO INSILLA
Le suore di oggi raccontano le suore di ieri. Lo fanno recitando in un docufilm insieme agli studenti, per far rivivere ciò che è successo 72 anni prima nel loro istituto. Ieri, 26 gennaio, nell’aula magna del liceo linguistico Serve di Maria addolorata di via Faentina è stato proiettato «Casa di vita», il docufilm realizzato un anno fa per raccontare la vicenda di 12 bimbe ebree nascoste in istituto per sottrarle alla deportazione nazista. Nel cortometraggio, realizzato dal professore d’italiano Cristiano Papucci, la testimonianza della madre generale Maria Paola Romoli si alterna all’interpretazione in bianco e nero degli avvenimenti. «L’idea è venuta alla professoressa Anna Di Giusto dopo che la Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg di Gerusalemme, ha assegnato all’istituto la targa di «Casa di vita» per aver salvato le ragazze perseguitate durante la II Guerra Mondiale» spiega Papucci.
«C’era proprio un gruppo che smistava nei vari istituti religiosi i profughi provenienti da Polonia, Belgio e Francia. L’arcivescovo Elia Dalla Costa e il rabbino capo di Firenze Fernando Belgrado ne facevano parte» racconta la preside del liceo suor Marzia Platania. Nella pellicola interpreta la madre superiora di allora, suor Maddalena Cei, insignita, nel febbraio 1998, del diploma d’onore di «Giusta fra le Nazioni». Suor Marzia è una donna alla mano, ha il terrore della cinepresa e non ama stare «con le persone importanti, come i politici, perché bisogna essere tutte per benino e io non ci riesco – confessa – ma questa storia andava raccontata, perché quello che ha fatto madre Maddalena Cei sia d’esempio». Il suo linguaggio è quello che fa breccia sui giovani anche mentre li bacchetta. «Il problema del male non sono i cattivi – dice agli studenti dopo la proiezione – ma i buoni che non fanno niente. Per questo la memoria è importante. Quelli che sono morti non possiamo più salvarli. Ma possiamo impegnarci a salvare noi stessi. Quando vedete qualcosa di sbagliato, non girate la testa dall’altra parte, ma ribellatevi».
La vicenda viene a galla il 24 giugno del 1997, quando una donna bussa alla porta del convento. Si chiama Dalia Tzuker, viene da Israele e dice che quel posto le ha salvato la vita. Dopo 53 anni tornava nelle stanze che l’avevano sottratta ai campi di concentramento. La accompagnano il fratello, al tempo dei fatti rifugiato nell’istituto S. Marta di Settignano e il cognato, sopravvissuto ad Auschwitz dove era arrivato a 9 anni. «Ricordo che si mise a baciare i muri del convento e ringraziava noi che nemmeno la conoscevamo – racconta nel video la madre Maria Paola Romoli – . Nell’estate 1955 avevamo ricevuto la visita della figlia di Sara Nissenbaum Goldstein, un’altra donna salvata, che ci parlava per la prima volta di diverse bambine ebree nascoste dalle nostre consorelle per sfuggire alla cattura». Dalia e la sorella erano due di loro. Nascoste alle SS col falso nome di Malvina e Gisella, insieme ad altre 10 ragazze.
Grazie a Dalia le suore ricostruiscono la vicenda, cercano negli archivi, scoprono lettere datate 1944. È il carteggio fra madre Maddalena Cei, l’arcivescovo Dalla Costa e il rabbino. Fra le carte, una lettera del ’44 dell’arcivescovado. «Presento Fernando Belgrado, rabbino capo di Firenze – si legge nel biglietto scritto a mano – . Faciliti a lui la visita alle bimbe Nissembaum e voglia accordargli, se possibile, che le fanciulle escano qualche ora con lui». Si parla delle profughe provenienti dalla Francia Sara e Michelina Nissenbaum, di 8 e 10 anni, nascoste nel convento dall’autunno del ’43 al dicembre del ’44 coi nomi falsi di Odette e Micheline Laurent. Fino a quando, il 28 novembre 1944, spariti i genitori «catturati dai tedeschi e trasportati in località ignota» come scrive il giudice tutelare Nicola Serra, Belgrado viene nominato tutore. Un mese dopo, il porporato chiede di affidare le bimbe al rabbino e si offre di pagare alle suore il conto per la loro degenza.